lunedì 12 giugno 2017

Prefazione


Da bambina tutti i miei conoscenti facevano notare la somiglianza particolare che mi univa a mia madre e mia nonna; per molti anni ho pensato che questo legame fosse ben più profondo della condivisione di qualche tratto fisico e caratteriale. Crescendo, durante gli studi universitari di Embriologia e Genetica, ho appreso che gli ovociti si formano nella futura bimba, mentre è ancora protetta nel ventre materno.
Ho capito che, seppure in forma incompleta, una parte di me già viveva in mia madre prima ancora che lei nascesse e quindi io vivevo in mia nonna. Quella piccola donna meravigliosa che ha contribuito a rendere la mia infanzia e la mia giovinezza un contenitore infinito di calore e amore.

Soltanto di recente, durante una chiacchierata col dentista, ho ricordato che una particolare conformazione dei miei denti incisivi, si tramandava di madre in figlia, già a partire dalla mia bisnonna, nata in un momento molto doloroso per la famiglia, poiché suo padre era morto in un incidente prima ancora che lei nascesse.
Da allora, tutte le femmine di questa grande famiglia, presentano questa particolarità ai denti. Liquidare la cosa come un semplice tratto genetico che si tramanda, sarebbe alquanto riduttivo e non spiegherebbe comunque come mai la cosa non abbia mai riguardato alcun maschio.

Quando Maria Gabriella mi ha parlato del suo progetto di indagine e comprensione dei messaggi contenuti nella memoria cellulare che si succede di madre in figlia, ho sentito che attraverso le righe scorrevoli di questo libro, può iniziare un processo di pulizia, di comprensione e di guarigione per ogni donna desiderosa di progredire nella conoscenza di se stessa.
Dall’esperienza delle proprie antenate, seguendo la linea femminile, è possibile accedere ad una sapienza antica, la propria origine, attraverso cui dare una nuova lettura al vissuto attuale, quotidiano, spesso doloroso.

È possibile la comprensione di blocchi emotivi, della tendenza per molte di noi, al ripetere gli stessi errori senza comprendere l’insegnamento racchiuso nell’esperienza stessa.
Vorrei tuttavia spingermi oltre ed azzardare che, per le donne che cercano una comprensione profonda, diventa possibile il riconoscimento del proprio antico e reale valore, si avvia il processo del perdono di se stesse, del passato, di tutto ciò che non si può cambiare.

In floriterapia il concetto di perdono è strettamente legato a quello dell’Amore Universale e non a caso l’Amore materno (che io definirei femmineo) permea tutte le cellule, infonde calore e nutrimento.
Solo a questo punto diventa possibile la riconciliazione con ogni parte di noi, l’accettazione del “Dono”, così come lo definisce Maria Gabriella, contenuto nell’esperienza da madre a madre. Attraverso il Dono ogni donna (ed ogni uomo) può a questo punto esprimere senza giudizio la propria attitudine, il talento, può volare nelle esperienze della vita con leggerezza, mostrando empatia nei confronti dell’intero Creato, con gioia e consapevolezza. Il mio augurio a Maria Gabriella perché questo sia solo l’inizio di una profonda esperienza di sostegno e conforto alle persone desiderose di guardare all’essenza della vita, consapevoli del fatto che solo partendo dalla profondità è possibile risalire fino alla vetta ed apprezzare davvero il magico susseguirsi del tempo.

Alessia Podda Naturopata.

Direttrice della Scuola di Naturopatia Il Fauno.

mercoledì 7 giugno 2017

Il dolore come opportunità di liberazione


La rabbia può essere di due tipi: espressa o inespressa. Dipende dalla maschera che abbiamo scelto di portare. Sappiamo che le emozioni sono memorizzate e contenute nel nostro corpo. Essendo manifestazioni energetiche, hanno necessità di essere alimentate come qualunque fonte di energia.
Questo rifornimento energetico arriverà dai nostri pensieri, che siamo soliti creare nella parte alta del corpo, ossia nella testa.
In un mondo completamente adulterato in cui l’essere umano deve rispondere a canoni di perfetta alienazione e totalmente artificioso, l’individuo che si trascina su questo pianeta ha scordato la Sua sovranità. 
Ha dimenticato che nella dualità del sistema vivente tutto è espressione di Anima. L’Anima Mundi come principio vivente unificante non ammette divisioni.
Pertanto, laddove è attentamente osservata una qualunque manifestazione, che piaccia o meno, è opportuno non giudicare ma osservarne la funzione.

La paura del dolore e la negazione della sua funzione, priva l’individuo dell’opportunità di cambiamento che il mal-Essere porta con sé. In genere preferiamo imbavagliarlo, per zittire la vita che chiama. Lei, la vita, è diretta, pura e non ammette menzogne.
La sofferenza, invece, ci risveglia e ci richiama alla presenza, permette il risveglio e pretende ascolto. Tanto la sofferenza fisica quanto quella psichica è la chiamata all’insurrezione della guerriera.
Si presenta a noi la possibilità di attraversare un fiume chiamato convenienza: partire dalla sponda della dormiente per arrivare a quella della risvegliata.
Ogni volta che lo attraversi il sonno si fa sempre più leggero, e quando il sonno diventa più leggero t’immergerai con minor paura, e l’oltrepasserai con minor fatica ed in minor tempo.
Se, invece, la scelta sarà quella della fuggitiva, il torpore s’impossesserà del tuo Essere e perderai forza, potere, fierezza ed orgoglio, divenendo preda del dubbio e perdendo la fiducia nella vita; sperimenterai l’assenza d’Amore che chiamiamo più comunemente paura.

Demanderai la responsabilità del tuo ben-Essere ad altri, aumentando la sensazione d’impotenza e di mal-Essere. Perché dico che la sofferenza è sacra? Da dove arriva? Forse la sofferenza è creata da una nostra attitudine a ribellarci agli eventi che non rispondono a ciò che avevamo pensato e programmato?
E’ una nostra resistenza?
Soffermiamoci un attimo sull’ostinata abitudine che abbiamo appreso nel programmare i nostri giorni, sino ad arrivare al punto di pianificare la nostra vita.

martedì 6 giugno 2017

Parli di un sistema pensato per l'uomo, non per la donna. E' questa vera emancipazione?

Ignari del nostro incommensurabile valore, restiamo affezionati e fedeli ad una misera storia di noi. La speranza di essere viste anche per poco, se pur da un sistema artificiale, ci rende succubi ed obbedienti. Proiettate ‘nel fare’ per mostrare un valore (anche per povere ricompense materiali), ci leghiamo ad un filo di speranza nel poter valere qualcosa per non scomparire del tutto. Ecco smascherata la trappola della ‘paura della perdita’, che genera un’esistenza senza vita.

Per acquisire valore ci ritroviamo ad ambire al fatidico posto di lavoro sicuro, che di certo ha solamente la sepoltura da vive. Sentirsi bene sentendosi sottomesse per almeno quarant’ anni. Piegate per una vita sulla stessa scrivania che odora di rancido. Oppure ingranaggi in una catena di montaggio. Figlie di una emancipazione che nulla ha di femminile, ma che si è piegata, adattandosi, alle regole sociali create da un pensiero maschile.

Unica via permessa affinché anche la donna possa ambire ad una propria autonomia economica senza dipendere dall’uomo... a quale prezzo? Il mondo del lavoro, così come è strutturato oggi, non pone minimamente in discussione il totale disinteresse verso i ritmi biologici del corpo femminile, che custodisce i ritmi biologici essenziali della vita.

Ecco che in un sistema lavorativo pensato per l’uomo si punta il dito giudicante, non appena la donna mostra delle esigenze date dalla sua naturale biologia. Sarebbe opportuno intendere l’impostazione e la creazione di un particolare mondo lavorativo, produttivo e professionale anche a misura della donna.

Abbiamo creduto alla rivoluzione femminista, ed al traguardo mai raggiunto perché poggiato su radici instabili. Per non parlare del fatto che ci rubano la vita in cambio di una misera paga. Ci ricattano perché siamo ricattabili, perché è l’unico sistema che abbiamo. Un sistema insito nella nostra cultura che accettiamo in partenza perché è il solo che conosciamo. Un sistema insegnato dalle nostre stesse famiglie. Se parlassimo di un’opera d’arte, più o meno potremo essere tutti d’accordo sul suo valore commerciale. Se, invece, fossimo chiamate a dare valore all’essere umano?

Alla donna, all’uomo?
Al nostro corpo?
Al trascorrere dei nostri giorni, alle nostre attitudini, ai nostri sogni?
Alla capacità di creare, d’inventare, di realizzare?
Quale potrebbe essere il nostro valore, il valore di ognuna di noi?
Qual è il tuo valore? Dove hai occultato il tuo Dono di Essere Donna?

Io voglio vivere... non domani, ora!

Il mio sguardo ora è pronto per osservare la nonna materna, così come è stata vista da me sino a questo momento. Quella solitudine che ho respirato standole accanto durante interminabili pomeriggi invernali; quella malinconia mista a rabbia che mostravano i suoi grandi occhi verdi, alla quale non sapevo dare una forma, ora si manifestava chiara. La osservo nelle sue lunghe sere ad aspettare, il suo chinare il capo per quieto vivere. Il suo respirare della mia presenza.

Lei che aveva conosciuto la miseria più nera ora si ritrovava con una vita agiata, ma perennemente avvolta nella solitudine. In quei lunghi silenzi osservavo il fuoco nel camino, ed il ticchettio della grossa sveglia sulla credenza. che scandagliava gli attimi. Improvvisamente ripenso a quel ticchettio, quel rumore tanto fastidioso da farmi provare ansia, disturbando le riflessioni utili per riempire quei lunghi silenzi. Ecco: il presente, ogni secondo mi risveglia al presente.


Apprendo il Dono ed imparo a non buttare via nulla, nemmeno la solitudine. Lei m’insegna ad aspettare, ad accettare e scoprire il dono nelle piccole cose. Ascolto i miei momenti bui da questa prospettiva, dalla responsabilità che governa tutti noi e le scelte che facciamo passo dopo passo, la solitudine non è più vuoto, ma diviene spazio, si trasforma in mille possibilità di movimento e di creazione. Io non voglio più aspettare, io desidero vivere. Ora.  

venerdì 2 giugno 2017

Il dolore che guarisce


La natura non ammette sprechi, e se ci ritroviamo a limitare la nostra funzione sacra nel mondo, attraverso comportamenti e scelte inadatte al nostro bene, siamo immancabilmente fermati. Sperperiamo il nostro valore completamente sommersi dall'esteriorità, da pregiudizi, condizionamenti, lamentele, identificandoci con ciò che possediamo e dal ruolo che ci hanno attribuito, alla maschera che indossiamo nei diversi ambienti e nelle diverse relazioni.

Vaghiamo in questo pianeta assenti a noi stessi, orfani di noi stessi. Esistendo senza vita.

Quanta commozione mentre scrivo queste parole, quanta tenerezza provo al ricordo di me, per quei momenti di drammatica esistenza, ed insieme quanta gratitudine per aver conosciuto la mia nudità.
Tuttavia, in quei giorni, ogni sfioramento d’immagini, di pensieri, di emozioni mi provocava dolore. Io ero il dolore. Ero il mio dolore.
Trascorrevo molto tempo su una panchina nella zona alta della città: eletta a mia dimora per alcune ore della giornata. Lassù il mio sguardo non aveva nessun limite. Vedevo il mare ed i tramonti senza avere la minima percezione della gioia. Anzi, era il solo modo per attenuare, anche di poco, il mio terrore.
Ben presto arrivai a non riuscire ad alzarmi dal letto. Ricordo bene un pomeriggio. Era il giorno del mio compleanno. I miei trentacinque anni.

Nel salotto del mio appartamento stavano alcune mie sorelle con le mie bambine. Sentivo il loro vociare e tutto andava bene, purché restassi a letto, il mio luogo protetto. Entrò nella mia camera Anna, la primogenita, più grande di me di diciassette mesi: se ne stava beata col suo pancione. Era in dolce attesa.
Si sedette sul dondolo in bambù che stava poco lontano dal mio letto, ma a distanza di sicurezza. Iniziò a dondolarsi come tempo addietro amavo fare anch’io. 

Provai una sensazione gradevole nell’osservarla.  Allungò il braccio e mi porse la mano accarezzando la mia. Prova a fidarti diceva. Riuscì, in un tempo senza tempo, con dolcezza e pazienza, quella puramente materna, a farmi sentire serena, ritrovandomi seduta sul dondolo al posto suo.
Lentamente, quasi cullandomi, trascinò la sedia sino alla cucina dove mi attendeva una bellissima torta. Era il mio compleanno ed io rinascevo. Ora il dolore dell’anima era diventato fisico e mi trapassava il corpo, permettendo di accorgermi di avere un corpo: muscoli, articolazioni, occhi, testa, spalle, stomaco, tutto rispondeva all’appello. Il mio corpo esigeva presenza. Sentivo che quello sarebbe stato un momento che mai avrei dimenticato.

Sono stanca ma esisto. Mi vedete?

Alcuni giorni mi sento stremata, ma ciò che mi distrugge è la preoccupazione di non arrivare a fine mese. Lo stipendio di mio marito è sicuro ma rasenta la miseria, ed ho ancora grandi sogni tutti bloccati, in attesa che arrivi il momento di esaudirli.
Amo la vita, continuo ad amarla nonostante senta il mio corpo sempre più debole. Nelle giornate di sole e luce canto, canto canzoni d’amore, nonostante tutto e tutti.
Ormai non dormo da mesi e trascorro la giornata con massacranti mal di testa. Non posso permettermi di fermarmi perchè i bambini devono andare a scuola e ci sono da preparare grembiuli e merende. Poi il pranzo, la cena, la spesa, la casa sin troppo grande, i pochi soldi ed io  sono stremata e vorrei scappare!
Non ho un luogo dove rifugiarmi se non la telefonata giornaliera che faccio a mia madre o all’amica.
E’ arrivata la bolletta del telefono e mio marito si è innervosito così tanto da creare malumore in famiglia per alcuni giorni, così ho deciso di diminuire le comunicazioni con mia madre e con l’amica Antonina.


Le mie giornate sono fatte di stanchezza: mi sveglio già stanca per non aver riposato, e mi trascino adempiendo ai doveri, ma il periodo che trascorro in piedi è sempre meno rispetto a quello che mi vede sul letto, totalmente sfinita. Tutto crolla. Tengo ancora le macerie tra le mani ma tutto, inesorabilmente, mi chiede di crollare. Aiutatemi, ho bisogno di aiuto. Lascio tutto e tutti: scappo via! Medici specialisti, ospedali, esami ed accertamenti. Mi vedete? Qualcuno mi vede? Io esisto? Curatemi, abbiate cura di me.

Da pensiero "femminista" a pensiero "femmina"


Vediamo ora come la medicina occidentale, dai suoi albori, pone le stesse basi sino ad ora osservate.
Ippocrate nel testo ‘sui disturbi delle vergini’ spiega la fisiologica tendenza delle donne all’instabilità ed alla loro tendenza ad autodistruggersi, da cui originano patologie a diversi livelli. Quindi la natura, nelle donne, si manifesta più debole a causa del ciclo mestruale.

La cura consigliata? Cercarsi un uomo ed accasarsi quanto prima. In un sol colpo sono distribuiti sigilli che ancora perdurano nell’inconscio della collettività femminile e maschile sulla funzione della famiglia, sul ruolo della donna in essa, e la sua funzione riproduttiva come valore intrinseco.
In questa direzione, possiamo continuare con la carrellata degli autori e filosofi che si avvicinano al nostro tempo.

Iniziamo da Nietzsche che parte dal presupposto che  ‘ogni relazione che non eleva, abbassa’ , nel matrimonio gli uomini scendono alquanto, mentre le donne, al contrario sono innalzate.
Continuando con Schopenhauer, che vede nella donna la particolarità nella cura per l’infanzia (perché esse stesse sono puerili, sciocche e miopi), occupano un posto intermedio tra il fanciullo e l’uomo.
Rousseau invece parla dei diversi gusti tra i sessi che porterebbero uomini e donne a vivere separati. Lo stesso sostiene una società che deve contemplare il disordine femminile, ma che può e deve essere circoscritto in circoli  dove le stesse  si sentano libere di spettegolare.

Questo modo di pensare non vi deve sembrare così cambiato ai giorni nostri, ha solo un’altra maschera ed altri mezzi.

Il mio non è un pensiero femminista ma un pensiero ‘femmina’, circolare e di unione tra natura e creature viventi. Chi come me ha a cuore le sorti dell’umanità, avverte la necessità di far sentire la propria voce, affinché le donne, per prime, si scrollino di dosso la paura di esprimere liberamente il loro vero Essere.