In campo lavorativo ambivo ad un posto statale, di ruolo, un
posto sicuro, che presto sarebbe arrivato e che mi avrebbe permesso di
accollarmi un mutuo interminabile per un modesto appartamento. Tutto per uscire
dal condizionamento, della vergogna, di abitare in una casa in affitto.
In poco tempo e con mia soddisfazione ero stata ingoiata da un
sistema sociale che, per poche briciole, mi regalava l’illusione di valere, di
sentirmi ‘qualcuno’ nel possedere il nulla. Inoltre ero diventata
abilissima nel raccontarmi le più devastanti menzogne. Giocavo alle belle
mascherine. Un gioco molto conosciuto e comune a questa umanità, che presto si
rivelò salvificamente mortale.
Lo sradicamento forzato dalla famiglia d’origine, vissuto in
giovane età, mi aveva permesso di essere fiera d’appartenere alla massa
obbediente o, perlomeno, questa era la storia che mi raccontavo. Credevo
in questa vittoria.
In campo lavorativo ero riconosciuta e lodata come un’ottima
im-piegata. Arrivavo in ufficio qualche minuto prima dell’orario stabilito, e
da buona ‘suddita’ mi trattenevo oltre l’orario di chiusura.
A volte bastavano anche solo pochi minuti in più. L’importante
sarebbe stato terminare il mese con un calcolo orario in positivo, e mai in
negativo. Con orgoglio timbravo il cartellino ed il conteggio settimanale
del mio servizio mi permetteva di racimolare un po’ di orario straordinario,
convertito in un misero premio salariale.
Velatamente, inesorabilmente, incessantemente, ero ingurgitata
dal e nel meccanismo infido della servitù dell’ occupazione onesta e devota al
padrone. Quel meccanismo tanto decantato da quell’emancipazione bramata e
raggiunta che promette riconoscimento. Accade alle dormienti. Ed io lo ero.
Oggi, a distanza di tanti anni, ho la consapevolezza di aver
vissuto una straordinaria seppur durissima esperienza e lezione durata circa
trent’anni.
Se invece la racconto osservandola da quel punto fisso in cui
apaticamente dimoravo, si mostra come un periodo sterile, infelice, trascorso a
compilare schede e certificazioni, inserire dati su sistemi informatici,
archiviare fascicoli, calcolare orari, ricostruire carriere, computare
pensioni, redigere statistiche.
Tutto uguale tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni. Tutto
inesorabilmente sicuro.
Cambiavano solo i nomi attraverso le circolari ministeriali che
sistematicamente registravo al protocollo, e trasferivo in apposita cartella da
far visionare alla direzione. Tutto restava pressoché uguale con qualche
modifica che, anziché alleggerire, complicava e appesantiva di anno in anno la
burocrazia e la mia tristezza, appesantendo il sarcofago che stava sulle mie
spalle e che portavo con falsa dignità.
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